Lo confesso subito, senza stucchevoli giri di parole, l'autonomia siciliana, di cui anche in queste ore si parla e straparla tanto, difesa ad oltranza da politici di ogni colore e appartenenza, e non solo, non mi è mai piaciuta. L'ho sempre guardata con diffidenza ripensando alle sue origini che portarono, ben prima della proclamazione della Repubblica e dell'avvento della nostra Costituzione, alla stesura dello Statuto della regione siciliana. Origini legate certamente alla storia della Sicilia, per certi versi di una vera nazione, alla sua secolare condizione di forte depressione economica e arretratezza, alle sue pulsioni separatiste, e però pure alla presenza cancerogena dei boss mafiosi, allo strapotere di baroni, latifondisti e caporali che volevano usare l'autonomia per scopi repellenti. Aspetti che si sono mischiati tra di loro e che non hanno mai fatto intravedere un trasparente e virtuoso processo verso un'autonomia rivelatasi poi talmente sfacciata da richiedere, nella convulsa fase dei lavori preparatori dello Statuto e dopo, attraverso ripetuti interventi della Consulta, degli opportuni aggiustamenti per non scivolare nel rischio concreto di un'oggettiva violazione dell'unità nazionale. Perché, me lo sono domandato, questa istintiva diffidenza? Probabilmente perché le risposte ad alcuni precisi interrogativi non erano e non sono affatto confortanti. L'autonomia ci ha mai difeso dal centralismo egoista dello Stato romano? Ha favorito la nascita e la crescita di una classe politica adeguata, culturalmente e moralmente? Ha contribuito ad affrancarci dal perenne sottosviluppo, dalla pratica del clientelismo e del favore, ad estirpare la nostra atavica indolenza nei confronti delle regole e la propensione a pensare e agire da sudditi piuttosto che da cittadini? Ci ha liberato dalla mafia e dalla mafiosità? In una parola, ci ha reso migliori o ha acuito i nostri difetti? Noi non siamo mai riusciti a disegnare, sulla base delle norme statutarie, ricordiamolo di rango costituzionale, una nostra identità economica, finanziaria, fiscale, sociale e politica che ci rendesse autorevoli al cospetto di Roma che spesso, con la colpevole complicità dei politici siciliani, ha fatto della Trinacria una terra di conquista di facili consensi, la pattumiera d'Italia, il luogo di sperimentazioni industriali devastanti. Non abbiamo mai avuto, in generale, una classe dirigente forte, capace, qualitativamente attrezzata per battere i pugni sui tavoli ministeriali e in qualche maniera imporsi. L'autonomia non ci ha risparmiato il sacco di Palermo perpetrato da Lima e da Ciancimino, non ci ha evitato l'umiliazione di presidenti della Regione condannati o indagati per reati di mafia, non ha impedito il massacro del territorio, delle coste, del mare, non ha reso impossibile per corrotti e corruttori sedere nei più alti scranni delle istituzioni regionali, politiche e non. Allora, chiedo a coloro che troviamo affaccendati a organizzare convegni e conferenze stampa sulla specialità siciliana e sulla sua necessità, a cosa è servita la nostra autonomia? E oggi ha ancora un senso, ammesso che mai ne abbia avuto uno? Le motivazioni storiche sono venute meno, l'Italia è un altro Paese, la riforma del Titolo V della Costituzione c'indirizza alla specialità di tutte le regioni. Soprattutto, qualcuno ci vuol forse convincere che la politica siciliana attuale sia in grado di dare esiti diversi a quegli interrogativi sopra esplicitati? Siamo in grado di replicare alle accuse che ci vengono rivolte di essere un mondo a parte dove privilegi, sprechi, sistemi feudali di gestione della cosa pubblica e spaventose diseguaglianze sociali la fanno da padroni? No, non credo proprio. Prova ne è la siderale distanza tra politica e cittadini, prova ne è la sfiducia della gente nei confronti dei partiti e di chi ci rappresenta nei palazzi che contano. Da siciliano, felice di essere tale, l'autonomia speciale non mi è mai piaciuta e continua a non piacermi, anzi, mi appare come un alibi per continuare nei vizi di sempre, ostentando un orgoglio quando, nei fatti, dovremmo invece avvertire comunitariamente, per il modo in cui ce ne siamo serviti, un senso di vergogna.
Pippo Russo