Domani 17 dicembre 2013: a un anno esatto dal tragico crollo dei due edifici in via Bagolino, avvenuto per l’appunto nella notte del 17 dicembre 2012, purtroppo non si può pensare a quell’evento come a un episodio isolato che non si ripeterà.
Non lo si può fare se non si prova a costruire una riflessione seria e puntuale sul concetto di “sicurezza strutturale” e una, più generale, sulle normative tecniche che si sono susseguite nel tempo, sulla sensibilità culturale diffusa a riguardo (anche con riferimento al rischio sismico) e sulle finora mancate politiche urbanistiche e di difesa del territorio urbano, e sull'applicazione della “responsabilità” per chi costruisce, perchè sembrerebbe che da molto tempo, la ricerca e le norme tecniche si sono arrese alla produzione di qualche prescrizione qualitativa di buona pratica costruttiva.
Nel nostro Paese una normativa di impostazione ispirata agli Eurocodici, congiuntamente ad una nuova zonizzazione della pericolosità sismica in tutto il territorio nazionale, è stata introdotta in via emergenziale nel 2003, sull’onda dell’emotività del crollo della scuola di San Giuliano di Puglia e poi, in via definitiva, sei anni dopo con il testo unico D.M. 14 Gennaio 2008 e con una nuova mappatura accurata della pericolosità sismica locale (OPCM 3519/2006), secondo cui, per ogni latitudine e longitudine, è determinabile un’accelerazione di picco al suolo (PGA Peak Ground Acceleration), definita su base probabilistica per cui l’opera “deve” essere progettata.
A fronte di questa storica conquista di “civiltà normativa”, sebbene con almeno un 50ennio di ritardo rispetto alle conquiste scientifiche, non dovrebbe essere doveroso e ovvio interrogarsi sulla sicurezza strutturale del patrimonio civile edificato quantomeno fino all’Ordinanza 3274/2003? A corollario ci si potrebbe anche interrogare sulla conoscenza e dimestichezza di professionisti ingegneri e architetti con la nuova normativa, nonché sul livello di aggiornamento dei tecnici degli uffici preposti al deposito delle progettazioni, ma forse le domande diventerebbero troppe.
Proviamo a dare, quindi, una risposta quantomeno parziale solo alla prima domanda. Tralasciando per brevità l’elencazione di tutte le norme tecniche italiane dal 1907 ad oggi, è indicativo notare che trascorrono quasi 30 anni dalla prima legge urbanistica del ’42 all’istituzione dell’obbligo di deposito del progetto strutturale al Genio Civile e del collaudo della struttura (per strutture in cemento armato o acciaio) con la Legge n. 1086 del 1971 (ancora vigente) e il suo primo collegato tecnico contente i criteri di calcolo (ossia il D.M. 30 maggio 1972 aggiornato nel ’74, ’76, ’80, ’92, ’96 fino all’ordinanza e all’attuale D.M. 2008). Per le costruzioni a struttura in muratura portante il dato è forse ancora più allarmante, visto che la prima normativa tecnica di calcolo è D.M. 20 novembre 1987.
Questo significa che una parte significativa del patrimonio edilizio esistente in Italia (tutta la ricostruzione postbellica degli anni ‘60) è costruita “a occhio”
Da quanto detto finora appare evidente che il livello di sicurezza strutturale del patrimonio costruito, già al netto di fenomeni di degrado per fisiologica vetustà (capaci di tradursi in dissesto) e di logiche superfetative di soprelevazioni selvagge o di opere interne realizzate a detrimento della capacità resistente degli elementi strutturali (aperture non progettate di vani su murature portanti, ad esempio), pone serissimi problemi di valutazione.
Valutare, quindi, il livello di sicurezza strutturale del patrimonio costruito e della sua vulnerabilità, sebbene operazione di notevole difficoltà cognitiva (per il semplice fatto di non poter fare riferimento nella maggior parte dei casi ad un progetto depositato) è senza dubbio una delle priorità assolute dal punto di vista culturale, prima ancora che di politica urgente per il territorio.
Purtroppo occorre riscontrare che gli sforzi legislativi in tal senso fino ad oggi siano stati assolutamente insufficienti: ad oggi abbiamo una mappatura puntuale della pericolosità del territorio, ma siamo ancora ben lontani dalla mappatura della vulnerabilità nonché da un piano organico e strategico di adeguamento o quantomeno di miglioramento del costruito alla luce del nuovo impianto normativo. L’unica misura degna di nota in tal senso deriva ancora una volta da una contingenza “emergenziale” ed è l’art. 11 della Legge 24 giugno 2009 n.77 per la ricostruzione dopo il sisma a L’Aquila. Si tratta di una misura dotata di coperture finanziarie assolutamente risibili e sulla cui reale efficacia ad oggi si può nutrire qualche dubbio1. Assolutamente deprecabile è anche il recente inserimento della detrazione fiscale del 65% per gli interventi di miglioramento strutturale nel Decreto-legge 4 giugno 2013 n. 63 perché volto a premiare l’intervento sulla singola unità abitativa, quando è concettualmente evidente che non esiste la sicurezza strutturale dell’unità abitativa singola, ma solo quella del complesso strutturale minimo (cioè dell’intera palazzina, dell’isolato nel caso di edifici in muratura contigui “in aggregato”).
Infine, di recente il D.M. 17 ottobre 2013 ha istituito l’ennesima commissione di studio sulla riduzione del rischio sismico composta da esperti di indubitabile competenza. Il problema è che l’indubitabile competenza troppo spesso tarda a tradursi in misure concrete; anzi, sovente, viene solo strumentalizza per rassicurare a tutti i costi le inquietudini emotive della popolazione: due membri di questo gruppo di studio facevano parte della Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile che subì una discutibile condanna in primo grado a causa del sisma aquilano del 2009.
Ritornando al punto da cui partiva il nostro ragionamento, a quella borgata sorta alle spalle del settecentesco Palazzo Montalbo e dell’Arsenale borbonico sulla vecchia Via del Molo nord (oggi Via Cristoforo Colombo), caratterizzata da edifici in muratura a uno o due piani, in cui alloggiavano i lavoratori dei Cantieri Florio nei primi del ‘900 (una delle vittime del crollo di via Bagolino era infatti un ex lavoratore dei Cantieri navali), magari soprelevati di uno o due piani di generazione in generazione, la riflessione fin qui fatta suggerisce come proprio quella borgata possa costituire un concreto “laboratorio” di compenetrazione fra politiche urbanistiche e di messa in sicurezza o di rigenerazione del costruito a consumo di suolo nullo.
Sarebbe ad esempio un’idea razionale riconvertire lo scriteriato P.R.U.S.S.T n. 63, che vorrebbe trasformare (a spese di Fintecna Spa, cioè della Cassa Depositi e Prestiti) un’area a forte vocazione produttiva e industriale, quale quella dei Cantieri Navali, in un’area turistico-commerciale in deroga al vigente strumento urbanistico. Un’idea per spendere meglio i soldi delle controllate dal Ministero dello Sviluppo Economico, cioè per produrre reale sviluppo economico, oltre che per ridurre il rischio di futuri costi sociali!
di Giuseppe Guggino circolo VIII° Circoscrizione SEL Palermo
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