Abbiamo preferito riportare l'addìo a Giovanni scritto da un collega, che con lui ha vissuto per anni a stretto contatto e per anni e ne ha condiviso, attraverso una profonda stima reciproca, la vita di redazione. Anche noi diamo il nostro addìo a Giovanni, ottima persona ancor prima che collega.
di Francesco Massaro
Nella lotta impari fra l'uomo e la malattia può trovare spazio – non è obbligatorio ma può succedere – il feroce tentativo di restare aggrappati alla vita semplicemente continuando a vivere per come si è sempre vissuto. Giovanni Rizzuto questo ha fatto, impedendo così che il tumore che mese dopo mese gli andava succhiando le energie lo privasse anzitempo della vita, della grinta, della dignità che dovrebbe accompagnare ogni uomo fino all'ultimo dei suoi giorni.
Appena sabato pomeriggio era al suo posto di redattore capo del Giornale di Sicilia. Esattamente come ha fatto, durante quest'ultimo anno, dopo ogni ricovero o ogni ciclo di chemioterapia. Sapeva, Giovanni, che solo la sua redazione, la sua sua sedia, la sua scrivania, le riunioni coi capiservizio per cucinare il giornale del giorno dopo avrebbero potuto tenerlo vivo a dispetto di quell'animale che lo corrodeva e che, per quanto possibile, lui continuava a ignorare (sì, ne parlava poco, e il suo carattere ostico, impervio, gli impediva fortunatamente di piangersi addosso). Chi l'ha conosciuto può dirsi certo che senza il giornale che lo ha accompagnato per quasi tutta la carriera (iniziò al L'Ora) Giovanni sarebbe morto prima.
Piace pensare che restare vivi fino alla fine, scalciare ferocemente fino all'ultimo istante possibile, fino all'ultimo respiro, sia uno sberleffo – l'unico, purtroppo – che ci è concesso di fronte a un avversario che è infinitamente più forte di noi, e che per questo vince sempre.