Quando decisi, prima delle primarie di dicembre dello scorso anno per la scelta del segretario nazionale del Pd, di abbracciare il progetto di Matteo Renzi, sapevo che la scommessa era alta e piuttosto rischiosa. Smuovere il Paese, perennemente immobile, facendo le riforme tanto attese e scardinando l'assetto dei poteri forti, dal sindacato più arretrato a Confindustria, dall'alta burocrazia ai manager strapagati, è un'impresa che non credi possibile. Inoltre, parlare un linguaggio nuovo e audace in Europa per cercare di uscire dalle secche della mancata crescita per un eccesso di rigore, dovuto in particolare ai parametri di Maastricht* e al Fiscal Compact**, finora non l'aveva fatto nessuno. Soprattutto tenendo conto dei tempi ristrettissimi a sua disposizione per dimostrare che aveva fatto bene a mandare a casa l'ineffabile suo immediato predecessore e che non aveva raccontato panzane nel corso dei mesi scorsi, prima di giungere a Palazzo Chigi. Però ero convinto che con Renzi era finalmente arrivata aria nuova, e me ne sono convinto di più quando ho visto Berlusconi remissivo nei suoi confronti, il primo leader del centrosinistra cui non poteva lanciare l'accusa di essere un comunista, e Grillo che non fa passare santo giorno senza sferrare un attacco violento al presidente del Consiglio. I fatti mi stanno dando ragione. A parte la riforma della legge elettorale, che mai si era potuta fare in ben otto anni dalla data del varo del famigerato "porcellum", in queste ore sono state esitate alcune misure del governo che danno il senso dell'energia nuova che si può percepire verso il cambiamento. Elenchiamoli brevemente. I famosi 80 euro al mese per dieci milioni di italiani, bonus che si vorrà mantenere come strutturale; il taglio dell'Irap del 10% che darà ossigeno alle imprese; il tetto per i dirigenti pubblici fissato in 240.000 euro; riduzione drastica delle auto blu (non più di 5 a ministero) e degli spazi per ogni dipendente pubblico (da 44 a 24 mq) per risparmiare sulle spese di affitto; pubblicazione online delle spese delle Regioni e degli enti locali; riduzione delle municipalizzate (da 8.000 a 1.000); rinvio di un anno della spesa per i caccia F35 per 150 milioni di euro; estinzione dei debiti della P.A. e impegno a non crearne per il futuro. E siamo solo agli inizi. Ovviamente sono già in campo analisti che non sanno fare altro che porre interrogativi e lanciare dubbi. In realtà sia Renzi che il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, certo non uno sprovveduto facilone, hanno operato con determinazione e consapevolezza, avendo ben chiaro che occorrerà in corso d'opera apportare i necessari aggiustamenti e cominciare a lavorare per altri provvedimenti , per esempio quelli che dovranno interessare le famiglie, i pensionati e gli incapienti per ora rimasti fuori. Nonostante scaramucce e qualche tentativo d'imboscata andato a vuoto il Pd, per una volta, sembra sostanzialmente unito intorno al premier nonché segretario. Fare diversamente, d'altronde, sarebbe una follia le cui conseguenze nefaste ricadrebbero su tutti gli italiani.
*Parametri di Maastricht. Sono, in estrema sintesi, i parametri di carattere economico finanziario necessari per entrare nell'Unione Europea e per restarci. I due più rilevanti sono il rapporto tra disavanzo pubblico annuale alla fine dell'ultimo esercizio finanziario e Pil che non deve mai sforare il 3% e il rapporto tra debito pubblico lordo e Pil che deve mantenersi, al massimo, entro il 60% al termine dell'ultimo esercizio di bilancio concluso.
** Fiscal compact. E', in estrema sintesi, un accordo firmato nel 2012 tra 25 Paesi dell'Unione europea che prevede alcuni vincoli per il contenimento del debito pubblico di ciascun Paese. Per molti la vera fonte dell'austerità. Prevede in particolare, tra le altre cose, l'inserimento dell'obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione; il vincolo dello 0,5% di deficit strutturale rispetto al Pil; ribadisce l'obbligo del rapporto massimo al 3% tra deficit e Pil già stabilito da Maastricht; per i Paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 60%, l'obbligo di ridurre il rapporto di almeno 1/20esimo all'anno. In Italia il debito pubblico ha sforato i 2000 miliardi di euro, quindi siamo intorno al 134% del PIL, ben oltre il virtuoso 60%. Per i Paesi che sono appena rientrati sotto la fatidica soglia del 3% nel rapporto tra deficit e PIL, vedi l'Italia, i controlli su questo vincolo inizieranno tra due anni.
Pippo Russo